Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

giovedì, novembre 27, 2008

Schönberg: "Pierrot lunaire" op.21 (1912)

Negli anni della giovinezza, tra il 1901 e il luglio del 1902, Arnold Schönberg si guadagnò da vivere svolgendo le mansioni di collaboratore musicale in un cabaret di Berlino, l'"Uberbrettl" di Ernst von Wolzogen: questi, noto per il carattere anticonformista e per aver steso il libretto della seconda opera lirica di Richard Strauss, Feuersnot (1901), era un uomo che aveva viaggiato, e si era appassionato al cabaret parigino, tentando con successo di crearne a Berlino l'equivalente tedesco. All'"Uberbrettl" Schönberg ebbe un incarico da semplice collaboratore; autodidatta, suonava il pianoforte abbastanza male (e male lo suonò per tutta la vita), e quindi le sue mansioni erano limitate alle prove e alla preparazione dei cantanti, oltre che alla stesura di nuove canzoni da proporre al pubblico berlinese. L'esperienza del cabaret "Uberbrettl" fu breve, ma lasciò una traccia significativa nell'evoluzione interiore del compositore. Tornato a Vienna nel 1903 con la speranza di trovare una sistemazione stabile nella sua città natale. Schönberg si trovò ad affrontare un ambiente poco o punto sensibile alle sue innovazioni artistiche, e mal disposto anche a concedergli quello spazio in ambito didattico cui egli tanto ambiva. Nel 1910, dopo una serie di clamorosi insuccessi alle prime esecuzioni di sue composizioni (tra cui quelli, a loro modo memorabili, di Verklärte Nacht e della Kammersymphonie op.9), Schönberg riuscì ad ottenere un posto di libero docente di materie musicali teoriche all'Accademia Imperiale di Musica e Arti Figurative di Vienna; nel 1911, tuttavia, una campagna di stampa violentissima scatenatasi contro di lui lo obbligò a lasciare il posto e a rifugiarsi nuovamente a Berlino. ormai ridotto in condizioni economiche peggio che precarie, per assumere un cattedra di estetica e teoria della composizione al Conservatorio Stern. Nella capitale prussiana Schönberg ritrovò vecchi amici ed estimatori, tra cui Arthur Schnabel, Ferruccio Busoni e Oskar Fried. In un momento di rinnovato ottimismo, riprese a comporre con nuova lena. Nacquero così, sul finire del 1911, il breve ma importantissimo Herzgewächse op.20 per soprano, celesta, harmonium e arpa, e, qualche mese più tardi, le ventuno liriche di quella che sarebbe diventata la sua opera più popolare, il Pierrot lunaire op.21. Pierrot lunaire, per soprano e cinque strumentisti per otto strumenti, fu scritto su commissione dell'attrice di cabaret Albertine Zehme, che ne curò la prima esecuzione il 6 ottobre 1912 alla Choraliensaal di Berlino, vestita da Pierrot e accompagnata da un gruppo di musicisti che suonavano dietro un paravento, sotto la direzione dello stesso Schönberg. L'opera fu subito accolta con molto interesse, e in seguito, specialmente dopo la Prima Guerra Mondiale, divenne la composizione più eseguita e giudicata più rappresentativa di Schönberg. Quando Alfredo Casella la propose in Italia, nel 1924, Giacomo Puccini fece un lungo viaggio per andare a sentirla. Schönberg ricordò sempre quest'episodio con gratitudine. L'opera è costituita da ventuno ("tre volte sette", secondo la dizione di Schönberg) liriche del poeta belga Albert Giraud, tradotte in tedesco con una certa libertà da Otto Erich Hartleben. Si tratta di liriche di valore abbastanza modesto, ma che costituivano, con la loro singolare miscela di sarcasmo, ironia, spirito dissacrante e, a volte, puro esemplice cattivo gusto, uno stimolo ideale per Schönberg. Il titolo originale della composizione parla esplicitamente di Melodramen per voce recitante (Sprechstimme) e strumenti. Il Melodrama, di cui la musica tedesca serbava preziose testimonianze dai tempi di Antonin Benda, su su fino a Beethoven e a Schubert, e in tempi più recenti a Richard Strauss, era formato da un testo recitato su un libero accompagnamento musicale. Le ventuno liriche del Pierrot lunaire sono in effetti Melodramen, ma in una accezione del tutto particolare, perché Schönberg ha minuziosamente indicato l'altezza delle note da intonare da parte della voce recitante, mettendo però bene in chiaro che tali note in genere non devono essere "cantate", ma semplicemente "parlate", cioè intonate all'attacco, ma subito abbandonate con una discesa o una salita del suono. Ciò porta il compositore a usare una vasta gamma di effetti vocali ("parlato", "cantato" "bisbigliato senza accento", "intonato con accento", etc.), che si uniscono ad un impiego sempre diversificato degli otto strumenti (flauto, ottavino, violino, viola, clarinetto, clarinetto basso, violoncello e pianoforte), creando colori vocali e strumentali di inaudita originalità. Oltre a ciò, Schönberg fa qui frequentemente ricorso alle tecniche compositive degli Antichi Maestri (per usare un termine che ci ricorda l'opera di un altro grande austriaco di questo secolo, Thomas Bernhard), impiegando la Passacaglia in Die Nacht e forme molto complesse di canone in Parodie e Der Mondfleck; oppure, all'inverso, cita tradizionali ritmi di danza, come il Valzer in Valse de Chopin, il Minuetto in Enthauptung, la Barcarolle in Heimweh. Nell'ultimo brano, infine, O alter Duft, sono impiegati, in successione, tutti e otto gli strumenti, mentre la musica ha per lo più il semplice andamento di una canzone omofonica.

di Danilo Prefumo (note al CD Arts 47389-2, 1998)

giovedì, novembre 20, 2008

Charles Rosen: suoni bene se capisci la musica

Fra le diverse novità editoriali presentate in questo numero di Leggìo, una si fa notare per l'inconsueta qualità di essere al tempo stesso il frutto di una profonda cultura storica e musicologica e di una lunga esperienza nel campo del concertismo internazionale. A settantanove anni, Charles Rosen è riconosciuto in tutto il mondo per lo stile brillante con cui sa raccontare le vicende della inusica e dell'arte su quotidiani e periodici, e sopratrutto nelle pagine di libri che appartengono ormai alla biblioteca di ogni appassionato: molti ricorderanno Le forme-sonata (Feltrinelli 1986), Lo stile classico (idem, terza ediz. 1989) e il monumentale La generazione romantica (Adelphi 1997). Ma si potrebbe dire che il suo "primo mestiere", sia seinpre stato quello di pianista, che esercita ai massimi livelli da più di sessant'anni, e che gli ha offerto un punto di vista privilegiato sulla vita culturale e musicale, rafforzato da amicizie e collaborazioni che spaziano da Stravinsky a Carter, da Boulez ai migliori solisti e interpreti del presente e del passato. In Piano Notes, Rosen ha scelto di descrivere per la prima volta la viva esperienza di suonare il pianoforte, offrendo al lettore una brillante riflessione su tutti i principali problemi che il rapporto con lo strumento, la musica e il contatto con il pubblico pongono: la questione del suono e dello stile, i segreti della performance dal vivo, le trappole degli studi in conservatorio e dei concorsi pianistici, le tecniche di registrazione e il futuro dello strumento. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente nella sua casa di New York per farcene raccontare un pezzetto.

In uno dei passaggi centrali del libro, Lei descrive quanto l'esperienza di suonare il pianoforte sia un fatto fisico, quasi muscolare, e l'importanza che questo ha nella composizione, nell'interpretazione e nella comunicazione.
E' stato il punto di partenza del libro. Dovevo tenere una conferenza sul tema del rapporto fra spirito e tecnica pianistica, e pensai che fosse interessante spiegare che in realtà l'influenza degli elementi della tecnica pianistica dal punto di vista "fisico" è una fonte di ispirazione musicale altrettanto importante. Anche volendo limitarsi al punto di vista della comunicazione, si potrebbe fare un parallelo con il direttore d'orchestra. Il pubblico dipende dall'osservazione del direttore d'orchestra per la comprensione della musica: forse si tratta di un terribile errore, ma nei fatti spesso è così. Il più grande pianista che abbia ascoltato quand'ero bambino, Josef Hofmann, quando suonava era praticamente immobile; Rubinstein invece era un grande maestro nel comunicare con il pubblico, e per capirlo basta osservare nei filmati i vistosi gesti che faceva nella Danza del fuoco dall'Amor brujo di De Falla.
Quali sono i riflessi di questi gesti sul suono, e che cosa si intende quando si parla del "bel suono" di un pianista?
Il principio su cui si basa il concetto di "bel suono" nel pianoforte è lo sfruttamento degli armonici degli accordi; in ogni accordo le note sono in differente rapporto con la nota fondamentale e gli altri suoni da cui essi sono composti; se si suonano tutte le note allo stesso modo quello che si ottiene è un suono decisamente monotono, ma se si tirano fuori le note che rendono un accordo vibrante, ecco allora nascere il "bel suono". Per questo sottolineo che non è il modo in cui si premono i tasti, il cosiddetto tocco, che dà la qualità del suono; non c'è differenza se premi un tasto con un dito o con una matita: il bel suono per una singola nota non esiste. Questo vuol dire che bisogna comprendere a fondo l'armonia di ogni accordo, e i pianisti più grandi sono quelli che sanno reagire all'armonia di un passaggio modificando l'intensità di una nota o di un'altra in relazione all'armonia, mettendo in evidenza le note più importanti. Suoni una melodia con espressione se sai quali sono le sue note più importanti, dove sono dispiegate le dissonanze, dove la tensione cresce o diminuisce. Fondamentalmente, avere un bel suono in parte è un fatto di tecnica, ma soprattutto è un fatto di musicalità.
Eppure lo stesso brano può essere suonato in diversi modi...
I diversi modi di suonare sono tutti legittimi, questo ho voluto affermarlo con molta chiarezza. Ci possono essere due pianisti che suonano entrambi con un "bel suono", ma il cui modo di suonare è completamente diverso. Benedetti Michelangeli e Gieseking erano entrambi grandi pianisti, ma se si ascolta una loro registrazione si capisce immediatamente quale dei due stia suonando. Sappiamo che Beethoven considerava il suono di Mozart come pianista "troppo slegato", ma non c'è motivo di ritenere che Beethoven suonasse la musica di Mozart ,"meglio" di Mozart stesso.
Quanto sono importanti, per un'interpretazione, le ricerche sugli strumenti e le prassi esecutive del passato?
Sappiamo che delle trentadue sonate di Beethoven solo due furono eseguite in un concerto pubblico a Vienna quando il compositore era in vita; questo vuol dire che le altre trenta furono eseguite unicamente davanti a dieci, venti persone al massimo. E' chiaro che suonare per un pubblico così ristretto è una situazione completamente diversa da quella di esibirsi in
una sala da duemila persone, e che non si potrà assolutamente farlo nello stesso modo. E' importante conoscere il passato, e in questo senso io ritengo importantissimi gli studi sulle prassi esecutive d'epoca, ma poi il problema da porsi sarà quello di riversare queste conoscenze nella situazione del concerto moderno o, in altre parole, di cercare una sorta di "approssimazione" che renda quelle informazioni utili nelle moderne condizioni d'esecuzione.
Un altro punto importante del suo libro riguarda il problema dell'istruzione e del repertorio del pianista.
Gran parte degli studenti di pianoforte, nei conservatori, si concentrano su un ristretto numero di brani, quelli utili per affrontare i concorsi. Oggi, quando un allievo finisce gli studi è in grado di eseguire al massimo duo o tre programmi concertistici. Hofmann a venticinque anni diede venti recital a Mosca senza mai ripetere un brano; un amico di Odessa mi ha raccontato di aver visto una pubblicità della fine del XIX secolo in cui si parlava di 42 sonate per pianoforte eseguite da Hofmann, e che quando ha controllato la data si è accorto che il pianista aveva dodici anni. Il problema del sistema odierno è che quanto più si è giovani, tanto più è facile imparare nuove composizioni. Ci sono brani che ho imparato da piccolo, e che vorrei davvero dimenticare, ma non ci riesco: per esempio non suono la Terza sonata di Hindemith perché la trovo noiosa, ma se mi siedo al pianoforte so che potrei eseguirla tutta a memoria, anche se non lo faccio da trentacinque anni. Pochi mesi fa ho suonato a Torino la prima esecuzione di Dialogues per pianoforte e orchestra di Elliott Carter; fra due anni dovrò suonarlo di nuovo, e so che dovrò studiarlo per almeno due settimane. Ma mi bastano cinque minuti di studio per il Quarto concerto di Beethoven, che ho imparato a sedici anni.
Quale futuro prevede per il pianoforte e per la musica pianistica?
Alla fine dell'Ottocento in ogni casa della classe media, anche della piccola borghesia, c'era un pianoforte; se una donna voleva sposarsi, si supponeva che sapesse cucinare, cucire e suonare il pianoforte. Cinquant'anni fa, quasi la metà del pubblico che ascoltava un recital pianistico aveva provato a suonare qualcuno dei brani in programma, e questo naturalmente comportava un'attitudine completamente diversa nei confronti dell'interpretazione e del repertorio. Non sono capace né intendo predire il futuro: posso però dire che non credo affatto che il pianoforte sparirà; tuttavia è certo che le condizioni in cui la nostra tradizione musicale si è formata si stanno modificando in maniera profonda.

intervista di Sergio Bestente (Leggìo, ed.EDT, autunno-inverno 2008)

sabato, novembre 15, 2008

La Creazione secondo Haydn

L'affascinante oratorio del grande Franz Joseph verrà eseguito il 17 e 18 febbraio 1990 a Modena e Reggio Emilia sotto la bacchetta filologica di Christopher Hogwood.

C'è un lunghissimo accordo in do minore. Sembra abbandonato da qualcuno, senza motivo, senza appigli. Il disegno si dispiega: non conosce confini, non ha un sopra, non conosce un sotto. Se non giungessero i violini e le viole a raccoglierlo, quasi con angoscia, sovrapponendosi, l'ascoltatore si smarrirebbe. Anche se il loro ingresso è dissonante, lo si ringrazia. C'è un po' di compagnia. Alla quarta battuta della partitura i primi violini si staccano da quel magma di suoni, danzano un'elegante spira semitonale, che ha in sè qualcosa di pauroso, ma che avverte: tutto è iniziato. Bastano pochi secondi per accorgersi che un'entità viene plasmata, allorchè una sinfonia caotica entra in scena, diffondendo ritardi, dissonanze, progressioni, cadenze evitate. Non c'è dubbio: l'universo sta cominciando a vivere. Quel genio di Franz Joseph Haydn ha descritto con pochi suoni un lavoro particolarmente riuscito a Dio: La creazione. Le tonalità ambigue accompagnano ogni battuta di questi primi momenti. E' una rappresentazione del caos iniziale perfetta. Sono suoni che commentano il versetto biblico: "La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque". Si cercano forme. E Dio forgia la prima di esse: la luce. Haydn non ha dubbi: quel celebre "fiat lux" va risolto con uno scoppio trionfante di do maggiore. I fisici e gli astronomici dicono che l'espressione equivale al Big-Bang. Sarà. Ma nel testo ebraico della Bibbia si conserva un verbo prezioso che l'agiografo riserva soltanto all'azione creatrice di Dio: è barà, un suono che scompare quando l'uomo cerca di creare qualcosa, ovvero quando riesce soltanto a produrre. Haydn questo l'aveva meditato con una sottigliezza a noi ignota. Accompagna le forme che nascono da Dio con dolcezza e le trasforma in quella che gli uomini chiamano realtà. Il do maggiore della luce si diffonde sino a ricoprire l'intera opera, si stempera, e ci si accorge che la partitura è sensibile dove c'è luce. Così, Die Schopfung, La creazione, è una geometria di luce prima che oratorio: ecco Haydn commuoversi al sorgere del sole all'inizio della terza giornata, insieme con i "più dolci raggi della luna"; ed eccolo cesellare l'eterea sonorità di tre flauti e degli archi pizzicati per l'alba della terza parte. Anche la "notte eterna" viene rappresentata. E la caduta degli spiriti infernali - un collasso di luce - diventa un fugato in do minore (il tema del caos iniziale) in un movimento in la maggiore. Va aggiunto che La creazione, così come oggi la conosciamo, ha uno schema atipico per l'epoca. Nella prima e seconda parte l'inizio di ogni giorno è deposto in una cornice di narrazione biblica e si chiude con un coro. C'era indubbiamente spazio per una maggior quantità di descrizione. Quella che poi avviene nella terza parte, dove Adamo ed Eva contemplano beati se stessi e il mondo da poco creato, avvolti in un'atmosfera idilliaca. Non manca, ovviamente, anche il lato pittoresco. Si pensi alle parti in cui Gabriele, Uriele e Raffaele - trasformati da Haydn in tre solisti - elaborano il racconto biblico della creazione, parafrasando quasi sempre il Paradiso perduto di Milton. Comincia una ricreazione della creazione, ovvero l'atto di Dio lavora già nelle creature. Haydn mostra con i suoni che le varianti di un possibile racconto, che ogni creatura tenta, sono tutte vere perchè immagini di un atto iniziale cominciato da Dio. Per questo i tre solisti sono scortati da suoni gradevoli con tratti leziosi. E anche Haydn stesso si diverte allorchè descrive la creazione degli animali pesanti usando il controfagotto, e un violento colpo di trombone gli serve perannunciare la nascita del re, il leone. Queste note il lettore le usi come un semplice cenno per meditare su una notizia: Christopher Hogwood verrà in Italia a dirigere La creazione di Haydn (con The Academy of Ancien Music e relativo coro, con Emma Kirby, soprano; Anthony Rolfe Johnson tenore; con Michael George, basso). E' prevista la prima esecuzione sabato 17 febbraio alle 21 al Teatro comunale di Modena, una seconda esecuzione domenica 18 a Reggio Emilia. Un avvenimento decisamente interessante: innanzitutto perchè Hogwood è oggi il direttore d'orchestra piu' qualificato per tentare una lettura filologica della Creazione, poi perchè lo stesso indagatore di sonorità originali sta iniziando l'incisione delle sinfonie di Haydn (il primo box sara' pronto in maggio presso l'Oiseau-Lyre). Certamente non sarà cosa semplice rileggere un'opera siffatta, già collaudata da celebri bacchette. C'è una versione di Bernstein (Cbs), c'è l'interpretazione di Karajan (Deutsche Grammophon), c'è l' elegante intuizione di Munchinger (Decca), c'è quella che preferiamo firmata da Jochum (Philips). Taciamo di molte altre, altrimenti dovremmo scrivere una bibliografia ragionata. Ma Hogwood ha un suo spazio. O meglio: c'è ancora da giocare una carta su questa splendida partitura e Hogwood è tra i pochi a possederla. Detto questo, non ci è possibile aggiungere altro. Val la pena di informare il lettore che l'opera non è così semplice come appare sotto la bacchetta di un esperto incantatore quale Bernstein. Si può cominciare dal libretto, su cui c'è un lavoro da compiere prima di accettare quel che di solito si legge, perchè venne avvolto già nei primi tempi da aneddoti e pettegolezzi. Si può soltanto essere certi di un fatto: che Haydn venne in possesso della necessaria trama durante la sua seconda visita a Londra e che con buone probabilità aveva intenzione di musicarla per un concerto organizzato da Salomon. Ma nel periodo 1794-95 il maestro cambiò protettore: da Salomon passò all'Opera Concert. E' inutile aggiungere che per lui, nonostante la fama, non sarebbe stato prudente entrare in concorrenza con Handel. La Creazione dovette così attendere. Inoltre il libretto originale inglese andò perduto. Gottfried van Swieten, che fa la figura dell'autore e ne curò una libera traduzione in tedesco, notò che l'estensore non veniva nominato. Ciò contrasta con una dichiarazione che Haydn rilasciò a Griesinger (autore di una serie di profili del musicista comparsi a Lipsia nel 1810): per quel che ci è stato tramandato, il maestro affermò che il librettista era un "inglese chiamato Lidley". Ma qui i problemi anzichè risolversi si complicano. Haydn conosceva un Lidl, suonatore di baryton, c'è un Thomas Lindley, compositore inglese, un Robert Lindley, violoncellista londinese. Tutti e tre sono papabili. Come si vede, non manca lavoro per i ricercatori. Ammesso che la sorte abbia salvato loro dei documenti. A noi resta il compito di capire l'affascinante odissea di quel do che accompagna Dio nei primi secondi dell'Universo. Tutto nacque lì: da pochi secondi. In fondo l'eternità è soltanto il tempo necessario per commentare quel che è successo in quegli istanti tra Dio e il Nulla. Tutto il resto non conta. Se mancasse quell'accordo in do minore, quel lampo di tempo, forse avrebbe vinto il Nulla. Ma questo Haydn non l'ha considerato.

di Armando Torno (Il Sole 24 Ore, 11/2/1990)

mercoledì, novembre 12, 2008

Viaggiare fra le note

Caspar David Friedrich ad Amburgo.

Discutibilmente trascurato per troppo tempo, Caspar David Friedrich (1774-1840) comincia ad essere rivalutato, come testimonia adesso questa mostra di Amburgo (che segue quella di Essen) in cui sono esposti 70 dipinti ed oltre 120 fra acquerelli e disegni, provenienti da musei e collezioni private. L'occasione permette di capire come, nelle sue opere, temi, colori e segni abbiano scosso la normalità della pittura tedesca ed abbiano sovvertito ogni sicurezza di scuola, con un'audacia di motivi e un'energia inventiva che pare opportuno collegare all'enorme spinta di cambiamento impressa alla storia dalla vicenda musicale tedesca che si iscrive sotto l'insegna del Romanticismo. Per la grandezza del respiro naturale, la libertà degli argomenti trattati, la prospettiva e la ricerca sperimentale che investe ogni momento dell'arte, la pittura di Friedrich può accostarsi alla follia visionaria di Turner, la cui conoscenza in Italia si deve, in primo luogo, alla ricerca coraggiosa e geniale di Francesco Arcangeli, il più acuto e spregiudicato degli allievi di Roberto Longhi. Quanti si avvicinano alla pittura dell'artista tedesco - come consente di farlo compiutamente questa rassegna di Amburgo - ed abbia una qualche confidenza con la pittura di Turner, percepisce lo scardinamento degli equilibri precedenti operato dai due artisti. E la nuova ansia di vita che proviene da quella parte più profonda dell' anima che scavalca i confini del passato per entrare nell'inquietudine inafferrabile e nella fiamma del romanticismo fino a raggiungere il moderno. Da Kleist a Rothko, da De Staël e Kiefer; e da Weber, Schubert, Schumann a Stockausen e Boulez. Nei suoi scritti, Novalis aveva affermato: «Il mondo dev'essere romanticizzato. In questo modo si ritrova il significato delle radici. Questo cambiamento ancora sconosciuto vuol dire identificare il più profondo se stesso in un se stesso migliore». Nel 1813 Friedrich dipinge Der Chausseur im Walde (Il cacciatore nella foresta), pieno d' ombre, di oscurità e di solitudine e nel 1820 Carl Maria von Weber compone Der Freischütz (Il franco cacciatore), dove il compositore introduce nella musica la tematica dell'uomo dannato che si svilupperà nell'Olandese volante di Wagner, ma riprende anche i temi del Flauto magico con quella sorta di prova che attende il protagonista. Nel 1817 il pittore romantico dipinge Wanderer über dem Nebelmeer (Viaggiatore su un mare di nebbia) con il protagonista che contempla l'ampiezza sconfinata del paesaggio in un'unità drammatica con la natura che appartiene a tutto Friedrich. Nel 1827 Franz Schubert scrive la Winterreise (Viaggio d'inverno), il ciclo nel quale si riconosce e si chiarisce il simbolo del viaggiatore romantico. Si apre, così, l'anima del compositore viennese che vive in un rapporto di solitudine e di colloquio intimo con la natura e con gli oggetti e con se stesso. Si scopre in quegli anni, in Friedrich, una posizione che coinvolge tutta la musica (da Weber a Wagner), la anima e l'interpreta con il coraggio delle sue idee e dei suoi motivi. In questa unità di spirito fra musica e pittura, tutto il movimento romantico si espande con pathos crescente; e in questi quadri, in queste note si avverte che è proprio un cammino poetico che racconta la storia umana.

Duilio Courir (Corriere della Sera, 4/11/2006)

giovedì, novembre 06, 2008

La "Missa Solemnis" secondo Harnoncourt

L'intera Messa è una preghiera per la pace.
Un'intervista con Nikolaus Hornoncourt.


Con la Missa solemnis Lei ha inaugurato il Festival di Solisburgo del 1992. Ha mai considerato l'eventualità di eseguire la Messa non al Festspielhaus, bensì in una chiesa?
No, sebbene io credo che Beethoven abbia scritto l'opera per l'uso liturgico. La funzione della musica sacra vale a dire l'attiva portecipazione alla solennità della messa, non è più conciliabile con un'odierna esecuzione in un festival. Ciò vorrebbe significare infatti che ciascun cantante, ciascun membro dell'orchestra, si venga o trovare per così dire a prendere porte consapevolmente alla liturgia. Ritengo che al giorno d'oggi sia problematico eseguire una simile composizione all'interno della messa. Al tempo di Beethoven era diverso. Allora per tutti i musicisti la messa domenicale in latino rappresentava una componente normale della
loro attività professionale e della loro religione.
Eppure già lo stesso Beethoven ha fatto sì che parti della Messa fossero eseguite nelle sale da concetto, ad esempio il giorno della prima esecuzione della sua Nona Sinfonia.
Per Beethoven ciò che contava era di presentare a Vienna l'opera, o quanto meno parti di essa. Ma poiché era severamente vietato eseguire anche solo delle parti della messa in un ambiente laico, Beethoven ha dovuto corredare queste parti di un testo in tedesco. Se si rispetta veramente il servizio divino, non è possibile semplicemente «presentare» queste forme, intrinsecamente religiose, dentro un'istituzione religiosa. Mi sembrerebbe infatti di fare come un turista che va nell'Africa centrale e che osservi i riti sacri delle popolazioni locali come una manifestazione folkloristica. Oggi si ha un rapporto completamente diverso con tutte le cose della religione.
Questa messa è stato scritta per l'uso all'interno della chiesa. L'occasione della composizione è venuta o Beethoven dalla cerimonia di insediamento a cardinale e arcivescovo di Olmütz del suo amico Arciduca Rodolfo. «Il giorno in cui una mia messa solenne dovesse venire eseguita per le festività di Sua Altezza Imperiale, sarà per me il più bello dello mia vita - scrive Beethoven all'inizio del 1819 - e Dio mi illuminerà, così che le mie deboli forze siano in grado di contribuire alla glorificazione di questo giorno solenne ... »
Finora il contesto liturgico della Missa solemnis è stato rodicalmente messo in discussione. Beethoven infatti tocca così velocemente le parole «Credo in unam sanctam, catholicam et apostolicam ecclesiam», che questo fatto è stato interpretato come una prova dell'atteggiamento di critica di Beethoven nei confronti del cattolicesimo o addirittura come un'espressione di dubbio verso la chiesa in generale.
Beethoven scrive molte parti della messa dilatando oltre modo la durata del testo, ma nel caso di passaggi porticolarmente intensi, dove evidentemente voleva una trasposizione altrettanto intensa della comprensione del testo, fa pronunciare le parole molto velocemente, perché solo in questo modo è possibile capire effettivamente queste frasi.
«Credo in unam sanctam catholicam et apostolicam ecclesiam». Il tenore conta il testo in un registro vocale nel quale può pronunciare le parole in maniera molto chiara. Le altre voci commentano nel frattempo: credo, credo, credo. Beethoven conosceva assai bene il significato dei testi e sapeva anche che in questo caso «catholicam» non significa la chiesa di Roma, ma la chiesa «universale», come del resto è anche il caso della Messa in si minore di Bach. Beethoven inoltre ha scritto nella partituro del Credo: «Dio sopra tutto - Dio non mi ha mai abbandonato». Nessun ateo parlerebbe in questa maniera. Questo voler distinguere a ogni costo se Beethoven era o non era fedele alla chiesa, mi sembra veramente privo di senso. Il problema non è infatti se l'autorità del papa venga riconosciuto da Beethoven oppure no, il problema è piuttosto se un ateo possa scrivere una messa. Sappiamo troppo poco della religiosità di Beethoven. Conosciamo molte sue dichiarazioni in proposito della sua fede in Dio, che deve essere stata molto forte. Beethoven ha espresso una grande fiducia e una sorta di amore in Dio quasi infantile. Quanto ciò fosse conforme alla dottrina della chiesa, non è però dato di saperlo.
Beethoven ha scritto: «Dal cuore Posso nuovamente - Tornare al cuore!». A Salisburgo abbiamo visto come Lei, con la suo esecuzione, sia riuscito a parlare direttamente agli uomini.
E' difficile parlare di ciò. Beethoven utilizza un linguaggio musicale che ci tocca da vicino, non gira intorno ai vocaboli, alle parole. Tuttavia cercare di esprimere questo fenomeno usando una terminologia scientifica, secondo la mia impressione, non renderebbe ragione della magia della cosa.
Può farci degli esempi?
Ci sono dei passaggi evidentissimi, in cui improvvisamente una contante rallenta o accelera il tempo o addirittura lo abbandona completamente, mettendosi a gridare; in quel punto si percepisce veramente come gli orrori della guerra siano presenti. E come un grido di pace in forma di recitativo, poi il tutto si ricompone e si ritorno alla preghiera. Ciò è di una tale forza retorica, che la stessa parola retorica mi sembra giò troppo concettuale.
Un punto cruciale della composizione è rappresentato dal recitativo nell'Agnus Dei (da battuta 164). All'inizio la musica tace del tutto, poi si sentono unicamente dei secchi colpi di timpano. Nessuno ha più dubbi: siamo in guerra. Siamo in un luogo di orrore. Subito dopo le trombe eseguono un richiamo, sottovoce e minaccioso, mentre gli archi suonano una figura sfuggente, che non riesco di tradurre altrimenti che come pelle d'oca, pelle d'oca tradotta in musica. Dopo di ciò il contralto grida («timidamente», scrive Beethoven nella sua partitura): «Agnus Dei - miserere nobis». Questo grido percorre tutte le voci soliste e si risolve finalmente in una calma assoluto, in una musica ben ordinata: «dona nobis pacem». Questo passaggio è uno dei più stroordinari di tutto la Missa. Esso imprime timore e nell'esecuzione di Salisburgo è stato sentito esattamente in questa moniera, quasi tutti hanno dovuto infatti pensare in quel momento agli orrori attuali. L'intera Missa è una preghiera per la pace.
Già all'inizio della messa, nel «Christe eleison», mi sembra di cogliere ciò e percepisco esattamente dove tutto ciò vad a poarare. «Miserere nobis» ed «eleison» significano infatti la stessa cosa: abbi pietà di noi, aiutaci. Già nel «Christe eleison» quindi posso trarre degli spunti: chi prega in questa maniera, può essere sicuro che la montagna che fino a ieri stava davanti a lui domani si sarà spostato a sinistra, un chilometro più in là. La preghiera, la fede, possono muovere infatti le montagne.
Successivamente ritorna ancora un passaggio simile: è il più veloce in assoluto della messa, dopo il «Dona nobis pocem» nell'Agnus Dei (b. 266). Si tratto di uno di quelle sezioni, per via delle quali la Misso solemnis è stata erroneamente tacciata di essere un'opera profana. Alla fine questo passo (si tratto quasi di una musica di battaglia) il coro grida disperato, velocissimo, «Agnus, agnus Dei». Di solito nella musica sacra l'Agnus Dei non viene gridato, ma piuttosto eseguito con un tono semplice e compunto. Questo grido si riferisce dunque, come già era nell'aria, alla guerra e alla musica di guerra. Agnello di Dio, dona o noi la pace! Il grido si trasforma direttamente in preghiera: Dona pacem. Beethoven ha scritto alla battuta 96 dell'Agnus Dei: «Preghiera per la pace interiore ed esteriore.» La pace esteriore significa l'assenza di guerra. Io credo che in questo primo passaggio delle trombe e dei timpani (Agnus Dei, da battuta 164) si tratti della pace esteriore. All'orizzonte si vede una città in fiamme, o qualcosa del genere. La pace interiore significa invece sicuramente la libertà dai conflitti interiori e viene rappresentata dal secondo passaggio (Agnus Dei, battuta 266 e segg.) come un dissidio interiore, che spinge a pregare per la pace interiore.
Il passo che Lei ha definito il più veloce dell'intero pezzo, rappresenta un punto cruciale anche per lo scelto dei tempi?
In un certo senso sì. Beethoven ho impiegato in questa composizione molti tempi differenti, poco meno di quanti ne usa Mozart in un'opera intera. In Mozart però, in quasi tutte le grandi composizioni, c'è una drammaturgia temporale costruita su un tempo base, al quale Mozart ritorna continuamente. Nella Missa solemnis invece quasi ogni tempo compare solo una volta in un solo pezzo.
Beethoven si è sforzato al massimo di descrivere esattamente i tempi. «Mit Andocht (con raccoglimento), assai sostenuto; Allegro ma non troppo e ben marcato; Andante molto contabile e non troppo mosso». Uno solo parola dunque non gli basta, bisogno dare un'indicazione ancora più precisa: non troppo veloce e non troppo lento, ciononostante continua ad avere paura che anche questo non sia abbastanza esplicito. La chiarezza delle indicazioni metronomiche, di cui Beethoven ha fatto uso nelle sinfonie, sembra non interessarlo invece nella Missa solemnis; forse perché gli apparivano troppo rigide, troppo inespressive?
Nelle mie esecuzioni i tempi possono essere giudicati solamente nel loro complesso. Modificare il tempo di una singola sezione non sarebbe affatto possibile. Ciò trascinerebbe con sé immediatamente anche tutto ciò che viene prima e dopo. E' come in un soffitto a volto, dove i mattoni vengono disposti esattamente con uno leggera forma conica. Se si toglie un solo mattone, la volta crolla giù.
Spesso si rimprovera a Beethoven di aver strumentato male e per questo non di rado lo si è voluto «correggere».
In Mozart la strumentozione può essere lasciata così com'è, in Haydn pure, si dice generalmente. Per quale motivo allora il povero Beethoven, solo perché era sordo, viene rimproverato di aver strumentato in maniera insoddisfacente, questo proprio non riesco o capirlo. Beethoven ha avuto un orecchio dotato di una capacità immoginativa favolosa. Me ne rendo conto ad ogni prova d'orchestra.
E' molto difficile eseguire la sua strumentazione; ma sarebbe assai meglio evitare di aggirare le difficoltà che si incontrano modificando la strumentazione, di solito non si tratta affatto di miglioramenti, bensì di peggioramenti. Personalmente ritengo che quanto sta scritto in partitura sia anche in assoluto la cosa migliore; queste «correzioni», che hanno sempre un che di scolastico, vengono generalmente giustificate col fatto che se Beethoven avesse avuto a disposizione le possibilità degli strumenti moderni (come ad esempio 'i corni a pistoni), avrebbe scritto sicuramente in maniera differente. Personalmente credo che se egli avesse avuto a disposizione gli strumenti moderni, la Missa avrebbe un aspetto totalmente differente.
Allora anche nelle parti vocali avrebbe potuto fare qualcosa di diverso, come ad esempio evitare di scrivere nel coro note così acute. Quanto meno avrebbe potuto scrivere delle parti un poco più in basso, oppure avrebbe potuto scegliere altre tonalità, così che tutto sarebbe risultato eseguibile senza fatica e scorrevolmente. La fatica che si percepisce, lo sforzo e persino il fallimento costituiscono un elemento essenziale della maniera di comporre beethoveniona.
Beethoven quindi richiede che ci si spinga fino all'estremo?
Sì, e richiede persino di superare i propri limiti, di mostrare che più di così non si può. Lo sforzo, la tensione estremo, tutto ciò ha un effetto incredibile. Non capisco perché oggi tutto ciò non venga affatto compreso, nonostante si sappia perfettamente che tutto, persino la gestualità, è parte integrante dell'arte. Il mostrare i miei limiti non significa affatto che io arrivo solamente fino a dove posso. Posso riconoscere il mio limite solamente se lo oltrepasso.
I musicisti devono comprendere questo fatto e cercare di tradurlo in musica.
Devono volerlo, così come devono volerlo gli ascoltatori. Tutti questi messaggi, veramente beethoveniani e che sono ciò che sta alla base dell'assoluta immediatezza dell'opera, vanno totalmente perduti se li si cerca di levigare e se, per fare un esempio, si cercano per il coro solamente contanti in grado di eseguire con facilità le note acute, Certamente a quel punto l'ascoltatore non percepisce più lo sforzo, ma anche il significato della fatica, dello sforzo, vanno perduti. Si può pulire, lucidare e levigare quanto si vuole, ma così si finisce anche per trasformare la composizione. Proprio l'elemento conflittuale, il carattere essenzialmente di opposizione dell'arte di Beethoven verrebbe ad essere offuscata in tale maniera.
La Missa solemnis è conosciuta come un'opera piuttosto fragorosa e monumentale. Nella sua interpretazione compaiono anche molti piano, ad esempio Lei per ampi tratti fa cantare il Sanctus non dal coro, ma dai solisti.
Si può costruire il pezzo anche partendo dal silenzio. A mio avviso lo Missa solemnis non è affatto un pezzo che deve fare fracasso, ma al contrario un'opera con dei gradi d'intensità assai differenziati. Ai solisti, al coro e all'orchestra viene continuamente richiesto di forsi da parte e di lasciar trasparire la tessitura musicale. La partitura è assai complicata; se io faccio cantare più forte tutti coloro che devono essere sentiti, alla fine ottengo unicamente un gran fracasso generale, nel quale non si riesce a distinguere più nulla. Devo invece lasciare col loro grado di intensità quelle voci che sono in primo piano e mettere tutto il resto in relazione ad esse.
Il «Pleni sunt coeli» nel Sanctus viene cantato dai solisti, come prescrive Beethoven. Il testo dice: «I cieli sono pieni della Tua gloria» e per «pieni» si pensa a cento o duecento persone che cantano, immaginandosi per così dire un esercito celeste. L'effetto è invece particolarmente forte se a cantare sono solamente i solisti, come se fossero degli osservatori stupiti, accompagnati da un'orchestra quasi di stampo borocco-bachiano.
La Chamber Orchestra of Europe suono solitamente con strumenti moderni, ma qui Lei ha sostituito alcuni strumenti con strumenti «storici».
Tra gli strumenti che si usano oggi, le trombe, i timpani e i tromboni sono particolarmente controindicati per la musica del periodo classico. I tromboni moderni esistono da più o meno 140 anni; Wagner ad esempio li riteneva inadeguati per le sue prime opere. Come possono allora essere buoni per Beethoven? Il loro suono ho troppo spessore e inoltre suonano troppo lentamente per poter lasciare trasparire la tessitura musicale. Per questo motivo abbiamo preferito usare dei tromboni di dimensioni più ridotte,
I timpani che si usano oggi solitamente nell'orchestra hanno invece una risonanza interna troppo grande e per quanto si cerchi di smorzarli, essi continuano sempre a risuonare troppo a lungo. La chiarezza dei colpi, qui assolutamente necessario, non si riesce ad ottenere con i timpani moderni. Per questo motivo siamo ricorsi o dei timpani più antichi e di dimensioni minori.
Inoltre abbiamo usato al posto delle trombe a pistoni le trombe naturali. Le trombe naturali non devono essere suonate con tanto energia per emettere un suono squillante. La tromba ha la sua propria retorica e le figure simili a fanfare devono pertanto essere squillanti. Ma le trombe moderne devono essere suonate molto forte per ottenere un timbro squillante. Con le trombe antiche invece basta già un mezzoforte, non bisogno mai suonare più forte di quello che sta scritto nella partitura e si ha inoltre la precisione negli attacchi.
Una volta Lei ha definito le partiture di Beethoven come dei «selvaggi quaderni di lavoro». Anche nel caso della Missa solemnis, Beethoven ha fatto continuamente delle correzioni. Quale fonte Lei ha utilizzato allora?
La mia fonte principale è stata una copia manoscritta della partitura autograta corretta da Beethoven. Le persone in grado di leggere le partiture scritte da Beethoven erano sempre poche. Beethoven stesso preferiva portare avanti il lavoro su delle copie pulite. Questo significa che alcune correzioni fondamentali fatte da Beethoven non si trovano nell'autografo, bensì nelle copie o nelle prime edizioni.
Oltre a ciò un ruolo fondamentale ha avuto anche tutto quanto io stesso sono riuscito a sapere sulla Missa solemnis. Ad esempio ho trovato nei quaderni di conversazione, che per me rappresentano in assoluto la lettura più appassionante che si possa fare su Beethoven, una serie di annotazioni risalenti al periodo delle prove. Da ciò che vi si legge posso ricostruire esattamente le sue conversazioni. Rinasce allora sotto i miei occhi, con una concretezza incredibile, l'atmosfera del lavoro e l'atmosfera delle prove; inoltre ottengo così delle informazioni sulla musica di altissimo valore. Tutto ciò è molto interessante, quasi come se venissi catapultato nel bel mezzo del lavoro di prova dell'ambiente che stava intorno a Beethoven.
intervista di Margarete Zander (traduzione di Marco Marica)