Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

giovedì, marzo 21, 2024

Gustav Mahler: Sinfonia n. 2 in Do minore, "Resurrezione"

Teatro Manzoni, Bologna- 4 febbraio 2024
«La cosa che colpisce di più in Mahler, a parte l'assoluta libertà della forma, è la ricchezza e la varietà dell'immaginazione. Non si possono pensare diversità più grandi di quelle che costituiscono le varie parti delle sue sinfonie. Varietà inesauribile, immaginazione prodigiosa: queste sono le prime impressioni che emergono da questa strana musica che una mano di ferro ha unito e combinato in un tutt'uno armonioso di elementi melodici, ritmici e armonici apparentemente incompatibili. Nel Prater si mescolano l'Ungheria e Praga. Anche la tecnica è variabile e sconcertante al massimo grado. [...] In ogni caso si può orgogliosamente affermare che fra tutti i sinfonisti dopo Beethoven, solo Mahler ha osato percorrere la strada dell'Ode alla gioia, e ha voluto continuare e sviluppare quanto Beethoven aveva iniziato, vale a dire un'arte sinfonica che fosse allo stesso tempo nazionale e universale». Questo scriveva sulle riviste «Monde musical» e «Comoedia» nel 1910 il primo e allora solo conoscitore italiano della musica di Mahler, Alfredo Casella.
Il compositore torinese che organizzò la prima esecuzione in Francia della Seconda sinfonia, diretta da Mahler, voleva presentare un'opera che doveva trovare accoglienza nel velenoso clima antisemita della Francia invischiata nelle tenebre dell'Affaire Dreyfus e superare l'ostilità di molti compositori francesi verso la nuova scuola tedesca rea di aver tradito Wagner e la sua tradizione beethoveniana (l'influente direttore della Schola Cantorum, il compositore antisemita e nazionalista Vincent d'Indy, proclamerà le sinfonie di Mahler “mostri musicali” che con la “smisurata lunghezza” cercano di nascondere “la povertà dell'invenzione” - chiara l'allusione ai cinque movimenti della Seconda e al suo organico enorme che prevede due soliste vocali, coro, fiati a 4, 10 corni e altrettante trombe, 6 timpani, grancassa, piatti e triangolo, 2 arpe, 3 campane, glockenspiel, organo).
Ancor più lungimirante la comprensione di Casella per la “sinfonia” mahleriana, vista come «libera da ogni laccio dogmatico, sufficiente in sé stessa, senza programma, senza teatro, né attori».
L'affermazione di Casella che si trattasse di musica “senza programma” era dettata dalla necessità di distinguere l'opera di Mahler dalla filiazione lisztiana che soprattutto in Francia fioriva fra i molti e importanti allievi di César Franck, capitanati da d'Indy e inserirla nel futuro aperto dal finale della Nona di Beethoven. Se da un punto di vista ideale la sua visione è comprensiva e corretta, non si può dimenticare quanto importante per la creatività di Mahler erano le esperienze musicali e di vita. Al critico Max Marschalk, il compositore rivelò di aver cominciato la Seconda sinfonia dove si era conclusa la Prima, vale a dire con il funerale dell'Eroe-Titano, «che io porto a seppellimento da un osservatorio più alto, raccolgo la sua vita come in un limpido specchio. E nello stesso tempo ci si pone la grande domanda: perché sei vissuto? Perché hai sofferto? È tutto solo un grande, atroce scherzo?».
Quando Mahler partecipò alla cerimonia funebre del grande direttore d'orchestra Hans von Bülow, morto nel 1894, ascoltò il coro accompagnato dall'organo eseguire un corale su testo di Klopstock “Auferstehen” (testo che Mahler inserirà aggiungendo anche versi propri nel Finale che evoca il Giudizio Ultimo e l'apoteosi della Resurrezione).
«Mi colpì come una folgore e tutto apparve limpido e chiaro alla mia anima! Chi crea attende questo lampo, è questo il sacro concepimento! L'esperienza che allora vissi, dovevo tradurla in suoni. Eppure se non avessi già portato in me quell'opera, come avrei potuto vivere tale esperienza? Così è sempre per me: soltanto se vivo un'esperienza, compongo; soltanto se compongo, la vivo!».
Pur ritenendo il poema sinfonico un'espressione logora e imprecisa, Mahler in occasione di una ripresa della Seconda sinfonia a Dresda scrisse un “programma” illuminante per la comprensione di questa colossale sinfonia-vita: «Primo movimento: Allegro maestoso [Mit durchhaus ernstem und feierlichem Ausdruck - con espressione assolutamente seria e solenne]. Siamo accanto alla bara di una persona amata. Ripercorriamo col pensiero ancora una volta, tutta la sua vita, le sue lotte, le sue sofferenze e i suoi successi. E ora, in questo momento grave e profondamente commovente, in cui ci liberiamo come di una benda davanti agli occhi di tutto quello che nella vita ci distrae e ci degrada, una voce di solenne maestosità calma il nostro cuore, una voce che, accecata dal miraggio della vita quotidiana, di solito ignoriamo: “E poi?”, ci domanda. “Cosa è la vita e cosa è la morte? Vivremo per sempre? È solo un sogno disordinato o la nostra vita e la nostra morte hanno un significato?". Dobbiamo rispondere a questa domanda, se vogliamo continuare a vivere. I successivi tre movimenti sono concepiti come intermezzi. Secondo movimento: Andante moderato [Sehr gamächlich - molto comodo]. Descrive un momento di beatitudine della vita del caro estinto e un mesto ricordo della giovinezza e della sua innocenza perduta. Terzo movimento: Scherzo [In ruhig fliessender Bewegung - con movimento tranquillo e scorrevole]. Uno spirito di incredula negatività lo ha colto. È sconcertato dal trambusto delle apparenze e perde la sua percezione dell'infanzia e la profonda forza che solo l'amore può dare. Dispera di sé stesso e di Dio. Il mondo e la vita cominciano a sembragli irreali. Un profondo disgusto per ogni forma di esistenza e d'evoluzione lo afferra come una mano di ferro, tormentandolo fino ad un grido disperato. Quarto movimento: a-solo del contralto “Urlícht” [Luce primigenia - Sehr feierlich, aber schlicht, Choralmässig - molto solenne, ma con semplicità, come un corale]. Le semplici parole emozionanti della fede risuonano nelle sue orecchie: “Io vengo da Dio e a Dio tornerò! Il buon Dio mi darà una piccola luce che illuminerà la strada che porta alla vita eterna e beata!". Quinto movimento: Auferstehung (Resurrezione) [Im Tempo des Scherzo. Wild herausfahrend - Selvaggiamente. Allegro energico. Langsam - Lento. Misterioso]. Ancora una volta dobbiamo affrontare domande terrificantí, e l'atmosfera è la stessa della fine del primo movimento. Si sente la voce di Colui che chiama. La fine di ogni essere vivente è giunta, il giudizio finale è a portata di mano e l'orrore del giorno dei giorni è piombato su di noi. La terra trema, le tombe si aprono, i morti sorgono e marciano in processione senza fine. Il grande e il piccolo della terra, i re e i mendicanti, i giusti e gli empi, procedono senza fine. [...] I nostri sensi ci abbandonano, la coscienza muore mentre si avvicina il Giudizio finale. L'ultima tromba suona; le trombe dell'Apocalisse squillano. Nel silenzio inquietante che segue possiamo a malapena sentire un lontano usignolo, ultima eco tremante della vita terrena. Si sente il dolce coro di santi e falangi celesti: “Risorgerai, sì, risorgerai”. Allora compare Dio in tutta la sua gloria: una luce meravigliosa, soave, ci penetra nel cuore. Vedi, tutto è tranquillo e beato. Non c'è giudizio e non ci sono peccatori, non ci sono giusti, non ci sono grandi né piccoli, non c'è punizione né ricompensa. Un sentimento d'amore travolgente ci riempie di conoscenza beata e illumina la nostra esistenza».
In momenti di tragici conflitti come gli attuali che insanguinano ancora il Medio Oriente, tornano in mente, come viatico per un futuro che riprenda quanto i padri fondatori dello Stato di Israele sperarono, le parole che Leonard Bernstein scrisse nel 1967 eseguendo con la Filarmonica di Israele, Jennie Tourel e Netanya Davrath, la Seconda sinfonia di Mahler sul monte Scopus (nella parte nord orientale di Gerusalemme, dove si trovava il Monte degli ulivi): «Il concetto di Resurrezione era importantissimo; dopo tutto questa terra era letteralmente rinata. L'antico ciclo di paura, distruzione e rinascita continua e si riflette nella musica di Mahler [...]. Sono particolarmente commosso che questa riaffermazione della fede abbia luogo su questa montagna di Gerusalemme, una città che oggi è unita e in pace - una città di nuove iniziative, ospitale e affascinante e dalle infinite possibilità. Questa città d'oro, Gerusalemme, può diventare un modello per il mondo - un microcosmo di coesistenza interetnica. È troppo sperare che questa crescita si possa diffondere a tutta la regione e oltre, anche al mondo? Perché no?».
Giovanni Gavazzeni
(Programma di sala: Bologna, 4 febbraio 2024)

lunedì, marzo 11, 2024

Bruno Walter & Anton Bruckner

Bruno Walter (1876-1962)
Riflessioni intorno a un disco di Bruno Walter.

Su Bruno Walter si sono dette e scritte tante cose, sicché i fatti inediti sono ormai retaggio di private memorie, di ricordi personali. Quando egli venne informato della esistenza in Italia di una iniziativa a favore di Bruckner, non esitò a rallegrarsene e a incoraggiarci con equilibrate parole, non dettate dalla circostanza, bensì da un'affettuosa partecipazione che non si fermò nell'ambito di una singola lettera, ma si diffuse con tono sempre cordiale in un epistolario che tengo molto caro, segnato alla fine di ogni anno dal puntuale scambio degli auguri rituali. Egli aveva già fatto molto per Bruckner, noi eravamo agli inizi. Nell'opera comune di diffusione della musica del maestro austriaco, egli s'imponeva con la pacata autorità della sua arte e del suo umanesimo, noi con le armi affilate della persuasione e dell'insistenza. Era sufficiente che uscisse un disco da lui inciso per imporre l'attenzione e proporre conversioni. Si sentiva dire anche dai più retrivi che se Walter dirige Bruckner quest'ultimo è degno di essere ascoltato.
Bruno Walter come del resto Furtwaengler e Hindemith suoi conterranei, arrivò tardi a Bruckner, come egli stesso confessò. Fu in seguito ad una malattia. La forzata immobilità, il raccoglimento indisturbato in se stesso lo ricondussero a quel musicista che, sì, conosceva, ma che gli era stato quasi sempre estraneo. E fu allora che "il velo si apri davanti ai suoi occhi" per usare le sue stesse parole. Da allora Walter non perse mai occasione per farlo conoscere e lo dichiarò anche pubblicamente, confermando nei suoi scritti la sua totale adesione al messaggio spirituale del maestro austriaco. Si può dire che negli Stati Uniti, Walter fu il primo ad eseguire Bruckner in modo sistematico. Forse il suo amore per questo musicista non fu soltanto la risultante di un ripensamento o di una revisione delle proprie idee proposta da una maturità raggiunta e superata. Le radici dovevano essere ben più profonde. Egli era stato discepolo e amico di Gustav Mahler e da questi assorbì quella sensibilità e quel gusto che dominavano il mondo musicale viennese nel quale Bruckner rappresentava l'anello di congiunzione tra tardo Ottocento e Mahler, che dello stesso Bruckner fu allievo, amico ed interprete. Per questo il messaggio bruckneriano filtrò in Bruno Walter mediato da Mahler, manifestandosi come illuminazione improvvisa, ma a distanza di tempo poiché inconsciamente germinava in lui. Tuttavia Bruno Walter seppe scindere esattamente i valori dei due musicisti a lui cari, i quali, per certi aspetti, erano radicalmente dissimili, per non dire addirittura opposti, sebbene gl'influssi che Bruckner esercitò sul boemo siano chiaramente palesi e possano ricondursi ad una visione mistica del mondo comune ad entrambi, ma risolta in modi differenti se prescindiamo per un attimo dalla mancanza di una cultura specifica in Bruckner e dall'eccesso di essa in Mahler.
Bruno Walter seppe fare di Bruckner e di Mahler due creazioni distinte, due mondi differenti, proiettando in ciascuno di essi una luce unica e di eguale intensità, guidato in ciò dalla sua straordinaria saggezza umanistica. Nelle sue mani Bruckner diventava più vero senza modificarsi. Egli nulla aggiungeva o toglieva. Egli lo restituiva sempre nuovo, ma intatto. E per questo le sue interpretazioni facevano testo. Egli si poneva di fronte alla musica con tutta umiltà, come un sacerdote che officia un rito, conscio e quasi sopraffatto dalla importanza della mediazione che egli rappresentava tra il testo scritto e la sua realizzazione sonora. La cura che egli poneva nei dettagli non gli faceva perdere di vista la concezione unitaria di tutta l'opera. i dettagli non erano frammenti, ma luce che vivificava l'opera, l'alone complessivo. E nelle sue mani le sinfonie di Bruckner diventano quelle che in realtà erano: grandi templi lirici, poemi epici. Ove gli altri incespicavano, egli camminava sicuro, con passo leggero, cantando. Tutto diventava naturale sotto la sua bacchetta, anche i passaggi più difficili.
Le sue interpretazioni del Te Deum e della Quarta Sinfonia, mi avevano spronato a richiedergli una esecuzione definitiva della Settima che, allora, consideravamo un po' come il nostro pane quotidiano, la sinfonia che i critici concordemente giudicavano più equilibrata. Non che le altre non lo fossero, ma nella Settima tale equilibrio risultava più evidente e faceva presa sul pubblico più impreparato senza richiedergli sforzi soverchi. Questa sinfonia fu anche oggetto di un nostro studio (1) che fu ampiamente diffuso in virtù della popolarità che quest'opera si era guadagnata in Italia grazie ad un film per il  quale era stata scelta a commento sonoro dietro suggerimento di Suso Cecchi d'Amico (2). Verso la fine del 1960, nell'inviare a Bruno Walter copia del nostro volumetto, scrissi chiedendo la sua autorizzazione a tradurre un suo libro su Mahler, nonché una prefazione per una nostra pubblicazione, prefazione che egli stese nell'estate successiva e di cui lesse la traduzione, approvandola. in calce alla mia lettera aggiunsi un audace post-scriptum con cui esortavo il maestro a curare la registrazione della Settima Sinfonia di Bruckner. Pur sapendo che Bruno Walter aveva la più ampia facoltà di scelta del repertorio da incidere per la Columbia, non è che mi facessi soverchie illusioni nel proporgli la registrazione della Settima. Non ignoravo che Walter si era da tempo ritirato dal podio per ordine del medico e si dedicava alle registrazioni con una certa cautela per non affaticarsi, data l'età e i disturbi che lo affliggevano. Nonostante questo, la risposta non si fece attendere: essa è datata 23 Dicembre 1960 e conclude con queste precise parole: "Sto leggendo con interesse la vostra guida alla Settima Sinfonia di Bruckner. Registrerò questo lavoro nei prossimi mesi. Cordiali saluti a lei e a tutti gli amici dell'associazione e Buon Anno a tutti. Sinceramente suo, Bruno Walter".
Il mio primo impulso sarebbe stato di scrivergli subito non solo per ringraziarlo, ma anche per segnalargli talune incongruenze alle quali gl'interpreti di questa Sinfonia si lasciavano andare soprattutto nel Trio dello Scherzo, privandolo, con l'adozione di tempi affrettati, della sua cantabilità e dello straordinario giuoco di luci ed ombre, di aperture e chiusure. Avrei voluto scrivergli: "Per favore, Dr. Walter," "lo faccia lento quel Trio!". Ma come si fa ad insegnare il mestiere a chi lo conosce fin troppo bene? La mia era la stessa presunzione coraggiosa del pulcino che passeggia sul dorso del leone.
Ora Walter non c'è più, ma ci ha lasciati con una promessa mantenuta: i dischi della Settima Sinfonia che ancora una volta perpetuano la sua memoria e i suoi insegnamenti. A questo punto nessuno si sorprenderà se io, succube della mia curiosità generata da premesse non realizzate, ha iniziato l'ascolto di questa registrazione dal Trio e non dal primo movimento. Ed eccolo uscir fuori lento, anzi, lentissimo! Ecco le cinque battute introduttive del timpano che scandisce un ritmo tutto beethoveniano (semiminima - semicroma - semiminima) derivato dal tema dello Scherzo enunciato dalla tromba. Infatti quel ritmo altro non è che la terza battuta di quel tema. Poi la melodia in 10 battute esposta dagli archi in un lirico cantabile (Bruckner ha segnato «gesangvoll»). Non è senza commozione che ho potuto constatare ancora una volta la grande intuizione interpretativa di Bruno Walter che ha fatto di questa sinfonia un grande tempio lirico di cui si diceva poc'anzi. E che dire del resto? Basta ascoltare le prime battute del primo tempo (allegro moderato) e il tema ascendente esposto dal corno e dai violoncelli all'unisono col sottofondo discreto del tremolo degli archi, per avere già un'idea chiarissima di ciò che dovrà venire dopo, di ciò che Bruckner e Bruno Walter ci riservano. Anche l'Adagio (molto solenne e molto lento) scritto nella previsione della morte di Wagner si colloca su uno stesso livello dinamico. Walter ha voluto collegare i due movimenti in una sola proiezione unitaria, giacché il primo reca già un'anticipazione del clima introverso e contemplativo del secondo (lettera I a lettera L). ln quest'ultimo affiorano gemme nascoste, come se la  bacchetta di Walter fosse quella di un prestigiatore. Chi ha mai avvertito lo sfregamento di un «si» un po' assassino enunciato solo dai violini primi alla ripresa del primo tema (lettera G)? Produce un effetto dissonante che gli altri probabilmente hanno cercato di nascondere, eppure Walter lo tira fuori e lo valorizza. E il giuoco secondario dei violoncelli e delle viole, riempimenti quasi impercettibili del canto che riposa su una nota un po' più lunga? Tutto è chiaro, solare.
Lo Scherzo e il Finale inaugurano la seconda parte della Sinfonia, visto che i primi due movimenti sono trattati da Bruno Walter come una sola entità. Il ritmo incalzante dello Scherzo punteggiato dal famoso tema della tromba da taluni autori paragonato al canto del gallo, sembra scacciare definitivamente le malinconie della Trauermusik del precedente Adagio, mentre il Finale (Mosso, ma non presto) è una proposta di semplicità. Strano a dirsi, in questo movimento Bruckner abbandona la forma tritematica a lui cara, puntando sul tema principale che, come nel primo tempo, viene introdotto e sostenuto da un lungo pedale in tremolo. La notevole concentrazione del contenuto musicale trova solo momenti di stasi nelle proposizioni corali realizzate perloppiù dagli ottoni. Anche qui Bruno Walter ha saputo equilibrare magnificamente le varie compagini strumentali, ottenendo un suono rotondo e corposo, oltre ad essere perfettamente intonato.
Non si è detto nulla della storia di questa sinfonia, storia lunga e penosa. Anche qui si potrebbero richiamare gli intrallazzí di Brahms e di Hanslick i quali giunsero persino ad ideare una pubblica protesta allo scopo d'impedire che la sinfonia venisse eseguita in Vienna. Sì, perché il grande successo di questo lavoro arrise a Bruckner in terra straniera ad opera di Arthur Nikisch (che era stato suo allievo a Vienna) che la eseguì per la prima volta a Lipsia nel Dicembre del 1884 ad un anno di distanza dal suo definitivo completamento. Alla storia e al destino di questa opera abbiamo già dedicato uno studio specifico al quale, forse un po' immodestamente, vorrei rinviare il lettore che desideri approfondire l'argomento. In questa sede ho preferito trattare soprattutto il lato interpretativo e la grandezza dell'interprete. Vorrei aggiungere che questi due dischi tecnicamente non sono da meno. Giusto equilibrio dinamico, giusta riverberazione dell'ambiente. Nella versione stereofonica, la sinfonia guadagna ancora di più, grazie all'allargamento del fronte sonoro che conferisce al lavoro un maggior senso di spazialità. Si tratta di una esecuzione difficilmente superabile. Grazie, Bruno Walter.
Edward D. R. Neill
("Disclub" 9, anno II, luglio 1964)
(1) «Guida alla Settima Sinfonia» Genova, 1960.
(2) «Senso» di Luchino Visconti.

venerdì, marzo 01, 2024

Adrian Leverkühn e Arnold Schönberg

Arnold Schönberg (1874-1951)
Tutti sono d'accordo nel ritenere irreperi
bile (anzi, inesistente) la vera identità di Adrian Leverkühn, protagonista del Doctor Faustus di Thomas Mann: cercare, tuttavia, di affiancarlo idealmente al musicista cui, per varii motivi, la stesura «musicale» del romanzo dovette di più [Arnold Schönberg), potrà servire egregiamente da stimolo: a) per cercare di chiarificare alcuni aspetti culturali del medesimo Schönberg; b) per individuare la possibilità di sopravvivenza di quella parte della cultura tedesca che cercò di continuare a esistere al di qua del gesto di definitiva rottura operato dagli espressionisti; che cercò di sviluppare, rendendolo «mondiale», il filo del germanesimo bruciatosi nell'orgia infernale di cui il nazismo rappresentò la «logica» fase finale: parte della cultura tedesca personificata, va da sé, da Thomas Mann.
Schönberg proviene dalla linea Wagner-Strauss, che ha vissuto intensamente, che ha accolto come sostrato, nella quale si è gettato aggiungendo, con le sue opere giovanili - Notte trasfigurata, Gurrelieder, Pélleas, ecc. -, ancora un mattone al tremendo edificio costruito dalla precedente cultura musicale: Tamino, Max, Florestano, Sigfrido, Parsifal: «eroi ascendenti» e formanti, attraverso un'aspra dialettica, un edificio armonico che, benevolmente ed esemplarmente autonomo in Bruckner, avrebbe generato, successivamente, una terribile e autosufficiente consapevolezza del tutto priva di quella forza auto-negatoria che, unica, le avrebbe impedito di cadere nel superomismo elevato a regola di vita, nel nazismo. Schönberg visse tutto questo. Anche lui, arrampicato sulla maculata piattaforma di un'armonia che si fa già risolta visione del mondo, aveva iniziato a costruire il suo edificio pangermanico, anche lui era un orgoglioso figlio del suo secolo, della sua cultura.
Adrian studia teologia. Il suo avvicinamento a una disciplina così - thomasmannianamente, diciamo - ambigua, è il primo atto dello sfacelo finale, è lo scorgere, chiarissimi, i limiti del tutto; è uno sfidare i potenziali residui di una visione trascendente minata; è il dimostrare, attraverso la distruggente ironia, che l'uomo cosciente venuto dopo il romanticismo, sa tutto, vede tutto, non può mettersi in marcia perché, affrontare un iter dialettico avendo già chiare le successive fasi, significa fare opera inutile. Adrian, attraverso l'op. 111 di Beethoven, ha toccato col dito il fondo delle cose della cultura, ha scorto, nella sublime disgregazione sonatistica del grande musicista, un atto di resa di un mondo che, ormai discoperto, avrebbe potuto dare, in seguito, solo soddisfazioni parziali, solo palliativi «estetici»: belli, stupendi, ma, a confronto dell'immane problematica uomo-universo, glissanti, mistificatorii.
Il contatto, mediato dalla fondamentale figura di Mahler, fra Schönberg e l'espressionismo, rappresenta il tragico punto di rottura del superomismo ascendente del musicista. Coartato in una stretta dialettica che spostava la visione di quel mondo all'esterno, che aboliva, cioè, le leggi univoche dell'eroe post-Wagneriano, la poetica del primo Schönberg si affloscia come un pallone. È sufficiente considerare realisticamente la rappresentatività sociale di quella musica, e la sua statica essenza al di qua di ogni divenire dialettico, per generare, nel musicista, un secco rifiuto. Non è argomento di questo scritto il vagliare analiticamente tutte le componenti dell'espressionismo schönberghiano: preme soltanto mettere l'accento sull'ipersaturazione culturale del musicista, maturata a contatto con determinate esperienze, sofferta e non sviluppata come retaggio di un'educazione precocemente consumata sull'arco di una visione la cui totalità è potenzialmente antica, potenzialmente consumabile sulla cresta del risultato di qualsiasi grande impennata di un singolo nella storia dell'umanità [si pensi solo a un problema simile - simile a quello di Thomas Mann - impostato, da Hermann Broch, sulla figura del poeta romano Virgilio Marone: La morte di Virgilio). Cosa questa che s'è visto, toccò ad Adrian con Beethoven.
L'iter umanistico di Thomas Mann non passò mai - è noto - attraverso l'espressionismo. Giunse, però, a una fase cruciale in cui il recupero dell'«uomo», attraverso la vigile e rinnovata presenza di se stesso e in se stesso, si presentava non già impossibile, ma pericolosa e proclive a precipitare nello aberrante monolita nazista. Leverkühn è lontano da questi estremi non già perché li riconosce come sintomo di una cultura fattasi pericoloso e ambiguo patrimonio comune, ma per innato distacco dal popolare. Se la musica successiva all'op. 111 di Beethoven altro non era stato che un riempimento di piccoli e inessenziali vuoti lasciati scoperti dall'autore del Fidelio, un riempimento che aveva generato e confermato la cultura di una nazione, come avrebbe potuto interessare la posizione di chi si opponeva al facile e previsto decorso di tale andamento produttivo, di chi individuava, in una cultura estesa a tutti, la piattaforma dalla quale si sarebbe levato il bestiale atto di padronanza del mondo, e che, intanto, confermava l'avvilimento del progresso del singolo: la posizione, insomma, dell'espressionista?
Sapere dell'essenziale vacuità di tutti i prodotti successivi all'op.111, ma, al tempo stesso, studiarli, far convivere la forza naturale per l'indagine e per l'assimilazione, col perenne e diabolico sorriso dell'ironia superatrice  Leverkühn, al momento del suo esordio produttivo, è già estenuato: i suoi lavori, sia pur «belli», sono, come vedremo, un atto di sfiducia nella società: non già per protesta, ma per costituzionale incapacità di credere.
È ipotesi coraggiosa, ma affatto accettabile, quella che considera la fase espressionistica schönberghiana (e anche berghiana e weberniana) un momento di rottura e di incandescente presenza immediata nel mondo, determinato dal desiderio di reincanalarsi nel filone più profondo della cultura idealistico-borghese, di quella cultura di cui, una volta soddisfatte tutte le impellenze etiche circa la conquista di una posizione nell'universo, il momento più vero era quello del cantare, del costruire, del rivendicare, con un fare eroicamente dialettico, l'umanità del soggetto, la sua positiva dignità, la sua posizione centrale nel cosmo. E Schönberg negando, nel suo momento espressionistico, la visione del mondo di quella borghesia, della borghesia del suo tempo, si era reincanalato in un'astrazione di essa, in una sua promanazione che, aboliti i vincoli spazio-temporali (il linguaggio come discendenza fruibile da parte di quel pubblico; il suo trasferimento in America], ricostruiva i proprii presupposti di umana dignità con dei metri nuovi non solo per la loro essenza grammaticale (dodecafonia), ma per la diversa - e nettamente, necessariamente ed eroicamente nuova - posizione di consumo che implicavano. Sempre, ripetiamo, al fine di recuperare l'attenzione, la facoltà intellettuale, creativa e ricettiva, dell'uomo.
Adrian, partendo dal medesimo presupposto di consumo, dalla medesima difficile (e contro natura, data l'essenza, di allora, della «natura») fruibilità dei metri dodecafonici, a essi si ancora. Pare appassionarsi alla cosa, pare perdere la sua eterna ironia, pare avere superato costruttivamente il momento negativo in cui la musica si era ridotta a mero «calore vaccino». Ma ecco il demonismo creatore arrestarsi al momento negatorio, ecco il suo sforzo creativo assumere, sempre più nettamente, sotto gli occhi atterriti dell'amico Zeitblom, le caratteristiche della negazione cosmica, ecco, di nuovo, la tremenda ironia emergere: e, stavolta, definitivamente acquietata. Il suo prodotto nega i vincoli semantici con la società: è un atto di «demonismo negatore» che procede, in un terreno reso scivoloso dal decadere dello «spirito» hegeliano al rango di materia «dolciastra» e capace solo di generare tronfi atti superomistici, con le stesse armi dell'irrazionalismo romantico: reso, un tempo, possibile dalla disponibilità del pubblico, dalla sua verginità. Un irrazionalismo che scansa, per innata boria, l'unica possibile strada, e cioè quella della pacata ponderatezza thomasmanniana. quella dell'amore, quella del silenzioso recupero del materiale umano salvabile, potenzialmente, dal decadere dell'hegelismo al rango di superpotenza d'origine nietzscheana. Un irrazionalismo, invece, che procede nella sua strada fondamentale serbando mostruosamente chiari i suoi presupposti d'azione e riservando la forza del demonio per l'imposizione della sua posizione, dei suoi contenuti, dei suoi insanabili contrasti con la mentailtà del momento.
Mentre Schönberg enuncia una nuova fase limpidamente creativa, si resta inorriditi dinanzi a ciò che ha compiuto Adrian: dinanzi a questa sua negazione dei vincoli che uniscono l'uomo all'altro uomo, dinanzi alla sua visione retroattiva della fine della società, dinanzi alla sua demitizzazione dell'umanità.
Se si pensa alle componenti schopenhaueriane (il mondo può giustificarsi esteticamente) e a quelle kantiano-hegeliane (posta la razionalità del cosmo, l'uomo la deve cantare: quindi, attraverso la sua opera, ricostruire eticamente) interagenti nella formazione di Thomas Mann, si comprenderà bene l'immensa portata mostruosamente negativa del «suo» Adrian: demistificatore dell'«incanto» estetico e, quindi, vanificatore del necessario iter etico che, agli inizi del '900, abbiamo visto necessariamente caratterizzato da una sorta di silenzioso e faticoso «contegno» umanistico.
E proprio là dove - come ci siamo sforzati di dimostrare, sia pure a grandi linee - la figura di Schönberg si differenzia nettamente da quella dell'infelice Leverkühn, possono generarsi dei contatti di grande momento. Va da se che il discorso non isola le figure del musicista vero e del musicista immaginario nella loro realtà totale, ma tende ad allacciarle al loro ambiente, a confonderle, persino, con delle loro negatività più o meno potenziali. Così Leverkühn è anche Zeitblom, anzi, addirittura, ora, Thomas Mann: in base a quel rapporto creatore-creatura che rende questa - al pari della figura d'artista «sano» vagheggiata da Nietzsche: e ben lungi dall'esaurirsi nel buon Bizet! - un prodotto tutt'altro che vivente e agente di per sé; così Schönberg, sia pure in base a ben altre considerazioni più o meno alla sua portata, è il futuro, un futuro che Thomas Mann vide e che noi, oggi, conosciamo ancor meglio.
Punti di contatto, a dispetto dell'azione meravigliosamente umanistica di Schönberg, e di quella diabolicamente disgregatrice di Leverkühn; punti di contatto che, proseguendo idealmente la «storia» del Doctor Faustus, evidenziano Serenus Zeitblom dinanzi al suo Adrian e ai successori di Schönberg: dinanzi alla consapevole e ormai statica negazione di quello e alla dialettica di questi: a una dialettica che, smarriti i presupposti di comunitarietà tipici della civiltà europea e di quella tedesca in particolare, prendono, da Schönberg e da Adrian (ora uniti), i moduli di una vivisezione linguistica, li sviluppano senza il conforto della comunicazione, e proseguono sentendo sempre più debolmente l'impellenza del costruire, e subendo sempre più fortemente l'ansia dello scavalcare. E, tutti, partendo dal rifiuto del «calore vaccino» della musica. Non solo, ma ormai privi della coscienza umanistica di Zeitblom; rimasto, al di qua dell'agone arte-vita, a far da spettatore, a versare inutili e forse malintese lacrime, ad approfondire il baratro esistente fra quelli che capiscono piangendo, quelli che non capiscono, e quelli che hanno ormai  secchi gli occhi.
Thoman Mann, grande umanista, negò - s'è detto - L'espressionismo nel senso che non diede seguito personale all'azione di protesta deformatrice del linguaggio tipica non solo degli espressionisti storici, ma anche, se intesa come processo di reazione all'alienazione borghese del linguaggio, di tutta l'avanguardia successiva. Trovo in sé, Thomas Mann, le forze adatte a reagire al mondo, facendo appello a un determinato patrimonio. E non sono assenti le conseguenze creative di tale sua mancanza di contatti con l'espressionismo. L'ultimo suo lavoro - il Felix Krull - «risponde», in un certo qual modo, ai problemi del Doctor Faustus additando una possibile nuova civiltà: non da crearsi, ma da cogliersi disponendo se stessi nella condizione più adatta a rigenerare il «racconto», l'«idillio», la «commedia». America e Unione Sovietica: una polivocità sostenuta da un grande e prontissimo entusiasmo sul punto di affrancarsi definitivamente dalla tabe europea: oppure Zdanov, vagheggiato (ma non so fino a che punto) in quell'enorme «centro-sinistra» mondiale che lo stesso scrittore accennò in altra sede.
È questo, forse, il motivo per cui Thomas Mann consumata, potenzialmente, in Leverkühn, tutta la tragedia dell'arte moderna, anche la figura - singolarmente ottimistica - di Schönberg viene ad assumere un rilievo parimenti negativo. La «scuola», anche intesa come scambio di direttive etiche, la sua scuola avrebbe portato all'avanguardia di oggi, cioè alla messa in discussione della totalità europea.
È questo, forse, il motivo per cui Thomas Mann non riconobbe in Schönberg quel "salvatore" che - ripeto: singolarmente - era; questo il motivo per cui la sua figura, costituzionalmente tanto lontana da quella di Adrian, le si appaia nelle logiche continuazioni che ogni individuo responsabile è obbligato a fare.
Gianfranco Zàccaro
("Disclub 11, anno II, ottobre-novembre 1964)

martedì, febbraio 20, 2024

La IX di Mahler diretta da Solti

Di quello che per giudizio comune e con frase un po' scontata viene definito il "testamento spirituale" di Gustav Mahler, della
Nona sinfonia, cioè, son già reperibili sulla piazza discografica almeno due registrazioni che, in quanto a livello esecutivo, non temono confronto alcuno: ci riferiamo ai dischi di Bruno Walter e di Jascha Horenstein, da anni in commercio. Se vogliano, per onestà, escludere da ogni giudizio preventivo la recente incisione di Kubelik (che non conosciamo), poco ci resta che possa essere contrapposto a quelle due fondamentali letture. Poco, ma in questo "poco" occorre far rientrare la performance di George Solti, di cui qui ci occupiamo e che va giudicata, nonostante i suoi limiti, come uno dei più interessanti fatti dell'interpretazione discografica mahleriana di questi ultimi anni.
Segnalatosi frequentemente tra i più autorevoli direttori wagneriani e straussiani del nostro tempo, Solti non aveva, fin qui, dimostrato particolare propensione alla poetica mahleriana, che, del resto, nelle sue mani doveva per forza di cose stravolgersi in un ambito troppo personale per apparire veritiero. Per un concertatore avvezzo alla definizione di tematiche come quelle sopracitate, il passaggio a Mahler può rappresentare un vero e proprio salto nel buio; s'intende che non si vuol parlare di fenomeni qualitativi, potendo il direttore intelligente superare tale scoglio con facilità; quanto di possibilità di adesione concettuale a un etos, ad una cultura. In tal senso, le esecuzioni discografiche che Solti aveva fornito sinora di musiche mahleriane peccavano di un limite ben preciso: quello di considerare l'esperienza del musicista come strettamente aggregata proprio a quel mondo wagneriano che le è invece estraneo per disposizione naturale; e di fornirci, pertanto, splendide riproduzioni di un fenomeno non riproducibile e del tutto irrelato alla poetica originaria dell'interprete.
Particolarmente esemplificativa di questo stato d'animo e di questa sorta di tensione adialogica ci era parsa, a suo tempo, la realizzazione della Seconda sinfonia: esteriormente perfetta, lucidissima, prepotente, ma assolutamente estranea alle ragioni dell'Autore; quasi una propaggine di quella tematica wagneriana tanto cara a Solti, che fa pagare a caro prezzo a Mahler il dono di quella splendida magniloquenza, condannandolo al triste destino dell'epigonismo (è ovvio che, in tale prospettiva, fosse proprio il famoso Finale della sinfonia ad ergersi potente come un baluardo sonoro,  come capacità-limite di un dato mondo poetico, fino a cadere nell'inutile).
Nella prospettiva di una tale resa sonora, l'unico ancoraggio certo era, dunque, l'epigonismo, sia pure  ad uno smagliante livello. Merito di Solti appare, quindi, l'aver inteso, in questa Nona, i pericoli di  una visione del genere e di aver, conseguentemente,  dimostrato la capacità di afferrare il prosieguo logico di quell'esperienza nel totale superamento del Wagnerismo antecedente. «Totale» è forse un termine azzardato, d'accordo; e vedremo anche perché. Ma l'importanza di questa incisione mi pare nella capacità dimostrata dal concertatore di mutare l'angolazione prospettica nei riguardi del proprio oggetto di discorso: di rendersi conto, cioè, della necessità di rinnegare il criterio del livellamento dell'autore alla propria personalità. Operazione sempre deleteria e particolarmente indicativa di quel modus operativo che sembra oggi tipico degli interpreti espressi dall'attuale indirizzo tecnologico.
In tal senso, mi pare che questa concertazione  della Nona, comunque la si voglia giudicare sul piano della complessiva riuscita artistica, è ancora un fatto di cultura e non di consumo; un'operazione, dunque, da accogliere con la massima soddisfazione e con la speranza che la dialettica, in quanto entità di ricerca, non sia ancora da ammassare nel solaio delle esperienze dimenticate.
La definizione del cosmo sonoro tentata da Solti  nel I Movimento, Andante commodo, sembrerebbe invero convalidare l'ipotesi di una concertazione "epigonica", tanto arduo riesce al direttore strapparsi di dosso le voluttuose spirali di uno straussismo gonfio, abnorme, sincreticamente fossilizzato nell'acquisizione di una Veltannschauung proliferatrice di cellule malate. E sì che poche pagine come questo Andante commodo denunciano lo stato di  malattia cerebrale dell'Europa pre-bellica, di cui Mahler doveva fornire forse il ritratto più sconvolgente. Ma il punto è che in ogni momento di tale denuncia clinica, la morbosità del punto di partenza viene contestata e messa in discussione dal punto d'arrivo d'un razionalismo linguistico di allucinante esattezza. Lontano le mille miglia così dalla necrosi adialettica dello straussismo come dalle appendici tumorali dell'esperienza stilistica di Tristano.
Esperienza quasi irripetibile, questa; tale da farci guardare con una sorta di sospetto persino alle insospettate e indiscusse capacità «anticipatrici» della tematica mahleriana (quelle, è chiaro, che guardano direttamente all'Espressionismo e che Solti, in questo primo Movimento, sembrerebbe non aver afferrato nella sua interezza). Ciò ci porta, forse, a ridimensionare, per amor d'esattezza, l'ambito della nostra accettazione, come si diceva; e, tuttavia, per fortuna, i residui (patetici e pericolosi) dello straussismo soltiano si fermano qui. Quasi a suggerire  un'ipotesi che, per quanto azzardata sia, contiene in sé qualcosa di affascinante: che, nel lungo e doloroso commiato mahleriano dall'epopea tardo-romantica, il direttore ungherese abbia voluto insinuare il suo personale commiato da un modus di interpretazione,
Si diceva dell'elevatissima razionalità del procedimento linguistico di Mahler: essa trova, credo, proprio nell'Andante commodo della Nona la sua specificazione più netta; tanto più netta quanto più profetica, in maniera allarmante, di una liquidazione che coinvolge sia l'etos espressivo che la struttura stessa di tale formidabile pagina. È straordinario, infatti, come la saturazione dell'esperienza pre-espressionistica, che Mahler aveva già affermato dalla Quinta sinfonia e che aveva trovato la più perfetta emancipazione nella Settima e ne Il canto della terra, si stravolga qui nella fissità di prassi armoniche e ritmiche chiaramente anticipatrici, più che dell'atonalismo di Berg, addirittura dei nodi strutturali weberniani. E tutto ciò senza perdere la sua sconvolgente ambiguità; anzi, facendola, per ricchissimo contrasto dialogico, riemergere al livello di una prospettiva contestatoria e poliforme.
E' ovvio che tutto questo non ci riguardi per affermare le qualità profetiche del linguaggio mahleriano: lasciamo che vi si sbizzarriscano tutti coloro per i quali l'importanza di un compositore è determinabile in base alle influenze esercitate su altri. Qui è invece da stabilire proprio quel contrasto dialettico tra contenuti in liquidazione e strutture al cui livello essi vengono espressi, che mi pare il segno più profondo della grande inventiva dell'ultimo Mahler.
Di questo, che Luigi Rognoni ha chiamato un «arsenale di esperienze sonore» (tutto vi si mescola: politonalismo, scala pentatonica, ritmica frammentata, opposizione tra suoni gravi e acuti), Solti, si è detto, esplicita, in un certo senso le potenze ambigue. Ciò facendo garantisce alla pagina musicale un senso che ci pare estraneo alle più lineari e ortodossamente mahleriane concertazioni di un Walter e di un Horenstein: quello della compenetrazione degli opposti; una sorta di equivocità malsana, in cui, però, è possibile intravvedere la potenziale e, man mano, sempre più definita capacità di abbandonare l'enfatico straussiano iniziale in favore di una lettura più responsabile e svincolata dalla personalità.
Dalle battute iniziali cariche di turgore e scaturenti nel lancinante attacco I a piena orchestra al Finale del movimento, quella stupefacente «coda», in cui sembrano cadere ad uno ad uno tutti i puntelli del pericolante edificio armonico innalzato da Mahler, con estremo sacrificio, alla Secessione austriaca, per lasciare il posto a un filiforme ed irreale gioco contrappuntistico tra i legni, il corno e i contrabassi (batt. 376-390, «plötzlich bedeuten langsamer und leise»), Solti trova una misura conturbante di quello che sarà il suo futuro Mahler e lascia, dunque, un documento impreciso per equivocità ed eterodossia concettuale, ma, tuttavia, attraente nella sua discontinuità.
Questi i limiti più notevoli dell'esecuzione (limiti, come si è visto, riscattabili in virtù del potenziale istinto di rinnovamento, ma sempre limiti); poiché dal II Movimento in poi, reso con eccellente evidenza ritmica e giusta adesione intellettuale, il direttore mi pare imbrocchi la strada giusta, quella preparata attraverso i conati dell'Andante commodo; sino alla splendida conclusione dell'Adagio, che viene presentato in prospettiva fonica attanagliante: di una cupezza quasi livida, macerante, più drammatica che patetica, forse, in una visuale lontana dalle letture storiche mahleriane, ma non per questo meno indicativa del suo travaglio psichico ed intellettuale.
In conclusione, un Mahler di tutto rilievo, anche se discutibile; ma forse proprio per questo. Attendiamo ora da Solti quella lettura della Settima che ancora manca al nostro bagaglio di esperienze mahleriane (la vecchia incisione di Rosbaud è troppo difettosa tecnicamente per poter servire da pietra di paragone con l'ideale interpretazione che ci siamo formati nella mente). Ci sembra che il suo nuovo modus mahleriano  possa autorizzare l'attesa.
La Decca ha servito il suo direttore con una registrazione impeccabile, al più alto livello di resa sonora, tale da inserirla tra le sue più riuscite produzioni commerciali. Un plauso anche per l'elegante presentazione dell'astuccio e per le note alla Sinfonia, una volta tanto realizzate con serietà d'intenti e non nella consueta maniera approssimativa e pasticciona cara ai collezionisti di dischi (del resto, la firma è di Deryck Cooke e ciò mi pare basti).
Aldo Nicastro
("Disclub" 26, anno VII, marzo-aprile 1968)